Sopra una possibile fonte ignorata de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Piercarlo Necchi

Sopra una possibile fonte ignorata de “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

Un problema per filologi

1_Valerio-Zurlini-Il-deserto-dei-Tartari-1976-480x372Di recente, in uno sconfinato pomeriggio di noia assolutamente mortale, ho ripreso in mano l’opera di Kierkegaard Stadi sul cammino della vita (1845).

Si tratta di un libro importante e (credo) non molto letto. Un testo difficile, complicato, un palinsesto labirintico di scritti attribuiti a una ridda di pseudonimi non lontana dal famoso “baule pieno di gente” degli scritti eteronimi di Fernando Pessoa, nel quale il “pensatore privato” danese torna sui temi fondamentali dei grandi capolavori del 1843 – Aut-Aut e Timore e tremore – ovvero sulle possibilità esistenziali e sui problemi della vita estetica, etica e religiosa, i tre “stadi” – appunto – lungo il “cammino della vita”.

La terza parte dell’opera si intitola Colpevole ? Non colpevole ? Una storia di passione. Esperimento psicologico di Frater Taciturnus e, all’interno di essa, si può leggere un Diario attribuito enigmaticamente a un giovane “qualcuno” (quidam).

In queste pagine, nascosto dietro il doppio schermo protettivo del quidam autore del Diario e dello pseudonimo/eteronimo di Frater taciturnus (scopritore, curatore ed esegeta del manoscritto ritrovato), Kierkegaard riprende ancora una volta il problema della sua vita (senza dubbio non l’ultima delle sue plurali ossessioni), ovvero la rottura del fidanzamento con la giovane Regine Olsen, consumata drammaticamente l’11 ottobre del 1841. E ancora una volta, Kierkegaard cerca di giustificare, innanzitutto a se stesso, la sua impossibilità di sposarsi, di scegliere/de-cidersi per il matrimonio (e, quindi, in grande, per la vita etica, incarnata – come è noto – dalla “figura” del marito). L’argomento-chiave del problematico “singolo” di Copenaghen, anche in queste pagine, è ancora e sempre la “tristezza” (una “innata tristezza”, la tristezza come “natura”) – in altri termini: l’inguaribile “malinconia” da cui Kierkegaard fu ferocemente segnato per tutta la vita.

Sfogliando il libro – come dicevo – il mio sguardo è caduto in modo perfettamente accidentale sulla prima pagina del Diario di quidam (datata 3 gennaio. Mattino), nella quale il giovane e ignoto autore del manoscritto esprime la sua condizione e il suo problema esistenziale attraverso un singolare paragone (metafora/analogia):

Può sposarsi, un soldato di frontiera ? Può, spiritualmente parlando, permettersi di sposarsi, un soldato di frontiera, un avamposto che lotta giorno e notte non solo contro i Tartari e gli Sciiti, ma anche contro le orde selvagge di un’innata tristezza; un avamposto che, anche quando non combatte giorno e notte, anche quando riesce a vivere in pace per lungo tempo, non sa mai tuttavia quando ricomincerà la guerra, dato che neppure osa chiamare ‘armistizio’ quella pausa ? La mia natura è tristezza (…)” (cfr. S. Kierkegaard, Stadi sul cammino della vita, a cura di L. Koch, Rizzoli, Milano 2001 (2), p. 326)

In queste righe, il giovane quidam paragona il suo casus alla situazione di un “soldato di frontiera”, perduto in un estremo “avamposto”, a difesa dalla minaccia sempre incombente da parte dei “Tartari” (e degli “Sciiti”). Un uomo che, medusato da una interminabile “pausa”, da un intervallo che non è né “guerra” né “pace”, ma neppure “armistizio” e tregua, deve lottare incessantemente contro le “orde selvagge” della sua “innata tristezza”.

Leggendo e in realtà ri-leggendo queste parole, nella mia mente è scoccata d’en coup la scintilla di una connessione e di un “cortocircuito” assolutamente chiari e distinti, cartesianamente “evidenti”.

Insomma, dinnanzi a questa immagine kierkegaardiana, come non pensare al celebre romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari (1940) ?

Il “soldato di frontiera” di Kierkegaard non richiama forse con forza irresistibile il malinconicissimo tenente Drogo, stregato dall’estremo avamposto della Fortezza Bastiani ? e che dire dei Tartari, questi nemici invisibili e incombenti, nominati esplicitamente dal filosofo insieme – è vero – agli Sciiti ? della condizione sospesa tra guerra, pace e armistizio ? di questo arresto in cui tutto è come pietrificato ? e circa il problema del “matrimonio”: ricordo (ma la mia ultima lettura del romanzo risale a tre decenni fa) che anche Drogo ha – in un certo senso – il suo “problema matrimoniale”. Nella sua città, il giovane ufficiale ha qualcuno come una cosiddetta persona, una donna che potrebbe – forse – diventare la persona della sua vita e, nella fattispecie, sua moglie. Ma, nella sua ultima licenza, prima di tornare a confondersi fino alla fine con il giallo indistinto della fortezza, quello tra Drogo e Maria è un incontro mancato, segnato senza rimedio da imbarazzo, impersuasione, distanza e freddezza siderali. Rientrato alla fortezza, Drogo non darà mai seguito alla domanda di trasferimento che potrebbe strapparlo dalla malìa di quel luogo. Si potrebbe dire – kierkegaardianamente – che anche Drogo sceglie di non sposarsi o, meglio, non sceglie di sposarsi. Sceglie la fortezza e le “orde selvagge”, molto più che dei Tartari, della sua “malinconia”.

Le coincidenze tra il passo di Kierkegaard e la scena del romanzo di Buzzati mi sembrano francamente innegabili.

La mia prima lettura integrale del libro di Kierkegaard risale ormai a qualche anno fa, ma – allora – la connessione tra Kierkegaard e Buzzati non si produsse. Pur leggendo le stesse parole – “soldato di frontiera”, “avamposto”, “Tartari” – non pensai minimamente al libro del grande scrittore italiano. Così, per me (soggettivamente), cogliere questa coincidenza è stato senz’altro una scoperta, una cosiddetta “scoperta personale”. Quello che non so – e che molto difficilmente potrei venire a sapere da solo – è se la mia scoperta sia anche una scoperta in sé e per sé (oggettivamente). Incrociando nel multiversum della “Rete”, la connessione B/K non appare (ma, lo si sa, molto spesso, nella “Rete”, più che “navigare” si “naufraga”). Mi sembra tuttavia impossibile che nessuno abbia già colto, prima d’ora, la coincidenza. Mi pare – quantomeno – altamente improbabile di essere stato io il primo a “vedere” una cosa così palesemente evidente. Sono certo che ogni buon lettore i cui occhi dovessero per caso posarsi sul passo di Kierkegaard non potrebbe non pensare, come è successo a me, al libro di Buzzati. A meno che non si tratti di una singolare versione en philologie del celebre “caso della lettera rubata” di Edgar Allan Poe.

Quello che vorrei innanzitutto sapere è dunque: questa cosa è già nota e risaputa o no ? (Per dirla tutta: la mia scoperta è una scoperta o soltanto la scoperta della famosa “acqua calda”?)

Al di là di ciò. In una intervista sul suo libro – come è noto – Buzzati dichiarò che lo spunto per il suo romanzo nacque “(…) dalla monotona routine redazionale notturna che facevo a quei tempi. Molto spesso avevo l’idea che quel tran-tran quotidiano dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita. (…) La trasposizione di questa idea in un mondo militare fantastico è stata per me quasi istintiva.” (cfr. D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 1995 – cit. in quarta di copertina)

La domanda che pongo è allora questa: e se la “trasposizione” allegorica della situazione esistenziale buzzatiana nel “mondo militare fantastico” della Fortezza Bastiani non fosse scaturita dall’ “istinto” (da una sorta di creatività immaginale immediata) dell’autore, ma proprio dalla lettura del passo di Kierkegaard negli Stadi sul cammino della vita ? e se l’immagine kierkegaardiana fosse una fonte nascosta (anche nel senso di un semplice spunto immaginativo iniziale) del romanzo di Buzzati ?

Certamente (e supponendo in via provvisoria che questa coincidenza sia finora sfuggita agli occhi degli studiosi e dei critici sia di Kierkegaard sia di Buzzati), per suffragare questa ipotesi sarebbero necessarie prove inoppugnabili sia dal punto di vista filologico sia dal punto di vista della biografia intellettuale di Buzzati (le sue letture ecc.).

Un compito che trascende decisamente le mie intenzioni, dato che in questa storia desidero essere e rimanere un semplice lettore, un quidam che legge e legge e, talvolta, leggendo, vede. E che sarei già molto contento di segnalare al mondo letterario – con un cosiddetto “nota bene” del genere di quelli per i quali era famoso Kierkegaard – la (fin qui presunta) “notizia”.

Buzzati-Kierkegaard. Una (semplice) coincidenza ? In ogni caso, come avrebbe detto Nietzsche, un “problema per filologi”.

Postilla conclusiva semi-scientifica:

Alla precedente “memoria”, aggiungo i seguenti dati minimi filologici, osservazioni e ipotesi:

1. La prima edizione de Il deserto dei Tartari è del 1940;

2. Nel 1940 non era ancora disponibile una traduzione italiana integrale degli Stadi sul cammino della vita di Kierkegaard (una traduzione italiana della sola prima parte dell’opera intitolata In vino veritas era disponibile fin dal 1910; a quanto ci risulta, la prima traduzione integrale degli Stadi si è avuta solo nel 1993, per la cura di L. Koch e pubblicata da Rizzoli);

3. Il passo kierkegaardiano in questione è citato alla pagina 118 dell’importante libro di R. Cantoni, La coscienza inquieta. S. Kierkegaard, la cui prima edizione presso Mondadori è però del 1949 e, quindi, di nove anni posteriore all’uscita del romanzo di Buzzati; in ogni caso, Cantoni non notò la coincidenza tra l’immagine di Kierkegaard e il mondo del “deserto dei Tartari”;

4. A parte le diverse edizioni danesi, gli Stadi di Kierkegaard erano stati tradotti in tedesco e pubblicati nel Vol. V delle Gesammelte Werke nel 1922; ma: Buzzati leggeva il tedesco ?

5. Resta aperta la possibilità che Buzzati avesse trovato il passo di Kierkegaard citato in qualche altro libro: o in un saggio critico sul filosofo danese o magari – ipotesi suggestiva, data la notoria e tormentosa faccenda del rapporto Buzzati-Kafka – in qualche pagina dei “quaderni” di Kafka dedicata a Kierkegaard; a una prima verifica veloce, compiuta attraverso l’indice dei nomi, sulla mia copia del volume Confessioni e diari di Kafka, dove Kierkegaard risulta citato non più di quattro o cinque volte, tuttavia, il passo in questione non compare;

6. Infine non è impossibile che, come già altre volte nella storia labirintica della “Biblioteca di Babele” e del “Castello dei destini incrociati” della letteratura universale, questa singolare e nello stesso tempo evidentissima coincidenza non sia altro che un caso della vita segreta degli “archetipi” (il simbolo archetipico della “scolta” di frontiera, dai tragici greci fino all’uomo come “luogotenente/sentinella del nulla” di Heidegger), che emergono, sprofondano, riaffiorano per tornare a inabissarsi nella corrente irrequieta del tempo e delle menti.